Il risotto

Il ristorante, all’interno di un vecchio albergo quasi ristrutturato, si affacciava su una strada angusta, la porta a vetro acidificato aveva sulla destra un campanello, sembrava una vecchia locanda ma anche un postribolo di gioie vissute e malinconie. Entrando, col mio libro sotto il braccio, mi accompagnarono al tavolo di una veranda abbracciata da gelsomini, la ceramica umida di pioggia come le candele – strinsi la sciapa al collo.
Cominciai, comoda, a leggere il libro sapendo che avrei dovuto attendere per il menu, la portata e il caffè finale.
Passi su un tragitto esperenziale come una sensazione che dalla ragione va alla punta delle dita per diventare emozione.
I versi che stavo leggendo mi offuscavano la vista e, nonostante gli occhiali per concentrarmi più che vedere e il mio calice di vino in mano, mi accorsi di non essere da sola. Al tavolo di fronte due anziani signori degustavano in silenzio l’ultima parte del pranzo, forse la più attesa, l’epilogo o la soddisfazione.
Sul piatto della signora, accomodati due fichi dalla pelle nera e il cuore dorato, scendeva una colata di cioccolato scuro e con gli occhi lucidi e il palato umido scherniva la noia del compagno porgendogli una forchetta. Questi, abbandonato al silenzio, giocava con le briciole sulla tovaglia segnando le ore e i minuti. Ora le nove e poi mezzanotte, compattava il tempo perchè volasse e lei sfiorava il palato con la dolcezza di un ricordo intimo. Il cibo sazia tutti i bisogni, talvolta l’abbandono e l’abitudine, seduce e tenta, anche sotto lo sguardo fisso di una ceramica di cui potrebbe dirsi uomo o sembiante.
Alla mia destra, un’altra coppia, più o meno quarant’anni, assillava la carta dei vini con erudizioni strambe su vitigni, profumi e gradazione alcolica, come se la competizione avesse più valore della seduzione, mentre sarebbe utile la conoscenza pacata per lasciarsi prendere.
Tolsi gli occhiali davanti al mio risotto, ché a cenare da sola mi risuanavano nelle orecchie dialoghi ovattati, come se i miei emisferi si parlassero, uno di fronte all’altro, mescolando ricordi.

Io seguo la tua scia, arrivo a te che molle stai seduta tra la seta giocando con le mani.

Sei qui, c’eri da prima, su questa via e non potrò tentarti per tutta la notte.

La semola del pane che stavo accarezzando, mi lasciò i polpastrelli ruvidi e ordinai il caffè.
A tavola si consuma la geometria di una storia.

(un’ora del mio tempo che dovrò imparare a dedicare a ciò che merita, anche se restasse solo su questa pagina)

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